domenica 4 dicembre 2011

Guido Cavalcanti


Voi, che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia
che sospirando la distrugge Amore.
E’ ven tagliando di sì gran valore
che’ deboletti spiriti van via,
riman figura sol' en segnoria
e voce alquanta che parla dolore.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr'occhi gentil presta si mosse;
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo, al primo tratto,
                                               che l’anima tremando si riscosse,
                                               veggendo morto ’l cor nel lato manco.

voi che attraverso gli occhi mi avete trapassato il cuore/ e avete risvegliato la mente (la fantasia) che dormiva / guardate la mia vita angosciata/ che Amore distrugge tra i sospiri/ egli (Amore) mi ferisce con così grande forza/ che i miei deboli spiriti vanno via/ e in signoria (di Amore) rimane solo la figura (il mio aspetto esteriore) e quel pò di voce che lamenta il mio dolore/ Questa forza di amore che mi ha distrutto/ è partita veloce dai vostri occhi/ e mi ha gettato una freccia nel fianco/ Il colpo giunse subito dritto al cuore tanto/ che la mia mente tremando si riscosse/
vedendo il cuore colpito a morte nel lato sinistro  

Arthur Schopenhauer





"Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio."

Giacomo Leopardi - Operette Morali


"Dall'odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non posso anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto inabile e impenetrabile all'odio. Il che non è piccola parte della mia tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare: perché sempre penso che comunemente, chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far comodo o piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per far male ad altri (che questo non è propriamente il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per far bene a sé; il qual desiderio è naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene. Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie continuamente l'animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l'ira e l'odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è conveniente alla tenuità della vita."
                                                                   dal "Dialogo di Timandro e Eleandro"

Francesco Petrarca - Rime


Quanto più m’avvicino al giorno estremo,
Che l’umana miseria suol far breve,
Più veggio ’l tempo andar veloce e leve,
E ’l mio di lui sperar fallace e scemo.
I’ dico a’ miei pensier: non molto andremo
D’amor parlando omai; chè ’l duro e greve
Terreno incarco, come fresca neve,
Si va struggendo; onde noi pace avremo:
Perchè con lui cadrà quella speranza
Che ne fe vaneggiar sì lungamente,
 E ’l riso e ’l pianto e la paura e l’ira.
                                        Sì vedrem chiaro poi come sovente
                                        Per le cose dubbiose altri s’avanza;
                                        E come spesso indarno si sospira.

Quanto più mi avvicino al giorno della morte/ che è solita rendere breve la miseria umana/ tanto più vedo il tempo scorrere lieve e veloce/ e la speranza riposta in lui mancare e rivelarsi vana (cioè la speranza di riuscire nel tempo a soddisfare il suo bisogno amoroso)/ e dico ai miei pensieri che non continueremo a lungo a parlare di amore/ perché questa dura e pesante esistenza terrena si va consumando come neve fresca (altri intendono per "terreno incarco" il corpo fisico)/ alla fine della quella raggiungeremo la pace / perché con la fine della vita finirà anche quella speranza che mi ha fatto vaneggiare così a lungo/ e (finirà) il riso, il pianto, la paura e l'ira (in altri termini ogni emozione) / e così ci renderemo conto di come spesso ci si affatichi per cose incerte/ e come spesso si sospiri inutilmente (cioè senza poter appagare i propri desideri)

sabato 3 dicembre 2011

Jonathan Swift - I viaggi di Gulliver



Le loro idee riguardi ai doveri dei genitori e dei figli sono l'opposto delle nostre. Dato che l'unione dei sessi si fonda sulla grande legge della natura per propagare e continuare la specie, i lillipuziani uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli altri animali, seguendo l'istinto della concupiscenza; l'affetto per i figli deriva quindi dallo stesso principio naturale. Per questo non sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al mondo; la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé, né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt'altre faccende affaccendati durante i loro incontri amorosi. Per questi e simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli.

Ovidio - Metamorfosi


Subito si reca alla dimora di Invidia, funerea di peste
e squallore. È una casa nascosta in fondo a una valle,
una casa priva di sole, senza un alito di vento,
tetra, tutta intorpidita dal gelo, dove sempre
manca il fuoco e sempre dilagano le nebbie.
Quando vi giunge, la temibile vergine della guerra
si ferma sulla soglia, non essendole permesso
di varcarla, e bussa alla porta con la punta della lancia.
Ai colpi si spalancano i battenti: all'interno intravede Invidia,
che mangia carne di vipera per alimentare
i suoi vizi, e a quella vista distoglie gli occhi. L'altra invece
si alza pigramente da terra, lasciandosi alle spalle brandelli
di serpenti mezzo rosicchiati, e avanza con passo incerto:
quando scorge la dea lucente d'armi in tutto il suo fulgore,
manda un gemito, contraendo il volto nel conato dei sospiri.
Il pallore le segna il viso, la magrezza tutto il corpo;
mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e guasti,
il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno.
Senza un'ombra di sorriso, se non mosso dalla sventura altrui,
non gode del sonno, agitata com'è dall'assillo dei suoi crucci;
con astio apprende i successi degli uomini e quando li apprende
si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso:
questo il suo tormento

domenica 20 novembre 2011

Marco Tullio Cicerone





La fortuna non solo è cieca lei stessa, ma per lo più rende ciechi anche coloro che abbraccia

Dante Alighieri



Lo duca mio di sùbito mi prese, 
come la madre ch’al romore è desta 
e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s’arresta, 
avendo più di lui che di sé cura, 
tanto che solo una camiscia vesta  

Inferno, XXIII

Torquato Tasso

Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
e l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
Vita de la mia vita?


Mimnermo

Quale vita, quale gioia senza Afrodite d'oro?
Meglio morire quando non più a cuore
mi siano gli amori nascosti, i doni delicati, il letto,
fiori effimeri in giovanil età per gli uomini e le donne.

Cupa e dolorosa, sopravviene la vecchiezza,
che rende turpi e cattivi, e l'animo, corroso da tristi pensieri

 di vedere i raggi del sole non gioisce
Si è odiosi ai ragazzi e indifferenti alle donne:
tanto orrenda fece un Dio la vecchiaia.





domenica 16 ottobre 2011

Francesco Petrarca

Se la mia vita da l’aspro tormento
Si può tanto schermire e dagli affanni,
Ch’i’ veggia, per virtù degli ultimi anni,
Donna, de’ be’ vostri occhi il lume spento,

E i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
E lassar le ghirlande e i verdi panni,
E ’l viso scolorir che ne’ miei danni
A lamentar mi fa pauroso e lento;

Pur mi darà tanta baldanza Amore,
Ch’i’vi discovrirò, de’ miei martiri
Qua’ sono stati gli anni e i giorni e l’ore.

E se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,
Non fia ch’almen non giunga al mio dolore
Alcun soccorso di tardi sospiri.

Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare

Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio. Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti; perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci crea diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.
Genio. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso. Più settimane, come tu sai.
Genio. Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?
Tasso. Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.
Genio. Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest'assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a' tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più, l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co' denti: beato quel dì che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.

Arthur Schopenhauer


Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un breve sogno dell'infinito spirituale naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre

venerdì 2 settembre 2011

Ugo Foscolo

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.
Perché dal dì ch'empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d'oro, arte in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Blaise Pascal


"Poiché Dio, se esiste, è nascosto, ogni religione che non afferma che Dio è nascosto non può essere vera."

Blaise Pascal

Quinto Orazio Flacco


"Chi morde l'amico assente, chi non lo difende quando un altro lo accusa, chi fa sorgere smodate risa della gente per avere fama di spiritoso, chi sa inventare le cose non vedute ed è incapace di tacere i segreti, questi è l'anima nera, da costui dovete guardarvi."
Orazio, Sermones I.IV

Ovidio - Narciso e Eco

Di un anno aveva ormai superato i quindici il figlio di Cefiso
e poteva sembrare tanto un fanciullo che un giovane:
più di un giovane, più di una fanciulla lo desiderava,
ma in quella tenera bellezza v'era una superbia così ingrata,
che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò.
Mentre spaventava i cervi per spingerli dentro le reti,
lo vide quella ninfa canora, che non sa tacere se parli,
ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni.
Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora,
benché loquace, non diversamente usava la sua bocca,
non riuscendo a rimandare di molte parole che le ultime.
Questo si doveva a Giunone, perché tutte le volte che avrebbe
potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove,
quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi
per dar modo alle ninfe di fuggire. Quando la dea se ne accorse:
«Di questa lingua che mi ha ingannato», disse, «potrai disporre
solo in parte: ridottissimo sarà l'uso che tu potrai farne».
E coi fatti confermò le minacce: solo a fine di un discorso
Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito.
Ora, quando vide Narciso vagare in campagne fuori mano,
Eco se ne infiammò e ne seguì le orme di nascosto;
e quanto più lo segue, tanto più vicino alla fiamma si brucia,
come lo zolfo che, spalmato in cima ad una fiaccola,
in un attimo divampa se si accosta alla fiamma.
Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole
e rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta,
non le permette di tentare; ma, e questo le è permesso, sta pronta
ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue stesse parole.
Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni,
aveva urlato: «C'è qualcuno?» ed Eco: «Qualcuno» risponde.
Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi,
grida a gran voce: «Vieni!»; e lei chiama chi l'ha chiamata.
Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: «Perché», chiede,
«mi sfuggi?», e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta.
Insiste e, ingannato dal rimbalzare della voce:
«Qui riuniamoci!» esclama, ed Eco che a nessun invito
mai risponderebbe più volentieri: «Uniamoci!» ripete.
E decisa a far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro
per gettargli, come sogna, le braccia al collo.
Lui fugge e fuggendo: «Togli queste mani, non abbracciarmi!»
grida. «Possa piuttosto morire che unirmi a te!».
E lei nient'altro risponde che: «Unirmi a te!».
Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti.
Ma l'amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto:
un tormento incessante le estenua sino alla pietà il corpo,
la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo
si dissolvono nell'aria. Non restano che voce e ossa:
la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre.
Ovidio, Le Metamorfosi, libro III

William Blake

Sono entrato nel Giardino dell’Amore,
Ed ho visto cosa mai veduta prima:
Una Cappella era stata eretta proprio al centro,
del prato in cui io ero solito giocare.

Essa aveva cancelli ben sprangati,
E "Tu non devi" era scritto sulla soglia;
Mi rivolsi al Giardino dell'Amore
Che tanti dolci fiori aveva generato;

E lo vidi di tombe tutto ingombro,
Ed al posto dei fiori vi eran lapidi,
E Preti in vesti nere si aggiravano tra quelle,
incatenando con dei rovi le mie gioie e desideri


lunedì 13 giugno 2011

Emily Bronte

Verrò quando sarai più triste,
steso nell'ombra che sale alla tua stanza;
quando il giorno demente ha perso il suo tripudio,
e il sorriso di gioia è ormai bandito
dalla malinconia pungente della notte.

Verrò quando la verità del cuore
dominerà intera, non obliqua,
ed il mio influsso si di te stendendosi,
farà acuta la pena, freddo il piacere,
e la tua anima porterà lontano.

Ascolta, è proprio l'ora,
l'ora tremenda per te:
non senti rullarti nell'anima
uno scroscio di strane emozioni,
messaggere di un comando più austero,
araldi di me?

martedì 7 giugno 2011

Francesco Petrarca - Rime VI


Sì traviato è ’l folle mio desio
A seguitar costei che ’n fuga è volta,
E de’ lacci d’Amor leggiera e sciolta
Vola dinanzi al lento correr mio;

Che, quanto richiamando più l’invio
Per la secura strada, men m’ascolta;
Nè mi vale spronarlo o dargli volta,
Ch’Amor per sua natura il fa restio.

E poi che ’l fren per forza a sè raccoglie,
I’ mi rimango in signoria di lui,
Che mal mio grado a morte mi trasporta,

Sol per venire al Lauro onde si coglie
Acerbo frutto, che le piaghe altrui,
Gustando, affligge più, che non conforta.

Petrarca, Rime VI

Archiloco

Con una fronda di mirto giocava
Ed una fresca rosa;
e la sua chioma
le ombrava lieve gli omeri e le spalle


domenica 5 giugno 2011

Giacomo Leopardi - Pensieri, XXXI

"In ogni paese i vizi e i mali universali degli uomini e della società umana, sono notati come particolari del luogo. Io non sono mai stato in parte dov'io non abbia udito: qui le donne sono vane e incostanti, leggono poco, e sono male istruite; qui il pubblico è curioso de' fatti altrui, ciarliero molto e maldicente; qui i danari, il favore e la viltà possono tutto; qui regna l'invidia, e le amicizie sono poco sincere; e così discorrendo; come se altrove le cose procedessero in altro modo. Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente."

Giacomo Leoaprdi - Pensieri, XXXI

giovedì 2 giugno 2011

Torquato Tasso - Gerusalemme Liberata c. II

L’esercito  cristiano si avvicina a Gerusalemme, per difendersi dall’imminente attacco il mago Ismeno suggerisce al re Aladino di impadronirsi di una immagine della Vergine Maria custodita in città in una chiesa cristiana. L’immagine sarebbe servita per formulare un sortilegio che avrebbe assicurato l’inespugnabilità delle mura cittadine. Seguendo il consiglio di Ismeno Aladino fa trasportare l’immagine della Vergine nella moschea e qui la fa custodire da una guardia. La mattina seguente la guardia non trova più l’immagine sacra la quale è misteriosamente scomparsa. Il re, pensando che l’immagine sia stata sottratta dagli stessi cristiani, la fa cercare in ogni luogo senza trovarla.  Furioso, Aladino decide di dare morte indiscriminata ai cristiani per colpire tra questi anche l’autore del furto. Viveva nella città la giovane Sofronia, giovane bellissima e di pensieri casti e puri,  di cui è segretamente e senza speranza innamorato il giovane Olindo, la quale, per evitare la strage dei cristiani, decide di dichiararsi autrice del furto. Ecco quello che succede.

Vergine era fra lor di già matura


verginità, d’alti pensieri e regi,
d’alta beltà; ma sua beltà non cura,
o tanto sol quant’onestà se ’n fregi.
È il suo pregio maggior che tra le mura
d’angusta casa asconde i suoi gran pregi,
e de’ vagheggiatori ella s’invola
a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola.
Pur guardia esser non può ch’in tutto celi
beltà degna ch’appaia e che s’ammiri;
né tu il consenti, Amor, ma la riveli
d’un giovenetto a i cupidi desiri.
Amor, ch’or cieco, or Argo, ora ne veli
di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri,
tu per mille custodie entro a i piú casti
verginei alberghi il guardo altrui portasti.
Colei Sofronia, Olindo egli s’appella,
d’una cittade entrambi e d’una fede.
Ei che modesto è sí com’essa è bella,
brama assai, poco spera, e nulla chiede;
né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella
o lo sprezza, o no ’l vede, o non s’avede.
Cosí fin ora il misero ha servito
o non visto, o mal noto, o mal gradito.
S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta
miserabile strage al popol loro.
A lei, che generosa è quanto onesta,
viene in pensier come salvar costoro.
Move fortezza il gran pensier, l’arresta
poi la vergogna e ’l verginal decoro;
vince fortezza, anzi s’accorda e face
sé vergognosa e la vergogna audace.
La vergine tra ’l vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non l’espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
con ischive maniere e generose.
Non sai ben dir s’adorna o se negletta,
se caso od arte il bel volto compose.
Di natura, d’Amor, de’ cieli amici
le negligenze sue sono artifici.
Mirata da ciascun passa, e non mira
l’altera donna, e innanzi al re se ’n viene.
Né, perché irato il veggia, il piè ritira,
ma il fero aspetto intrepida sostiene.
"Vengo, signor," gli disse "e ’ntanto l’ira
prego sospenda e ’l tuo popolo affrene:
vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso."
A l’onesta baldanza, a l’improviso
folgorar di bellezze altere e sante,
quasi confuso il re, quasi conquiso,
frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante.
S’egli era d’alma o se costei di viso
severa manco, ei diveniane amante;
ma ritrosa beltà ritroso core
non prende, e sono i vezzi esca d’Amore.
Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,
s’amor non fu, che mosse il cor villano.
"Narra" ei le dice "il tutto; ecco, io commetto
che non s’offenda il popol tuo cristiano."
Ed ella: "Il reo si trova al tuo cospetto:
opra è il furto, signor, di questa mano;
io l’imagine tolsi, io son colei
che tu ricerchi, e me punir tu déi."
Cosí al publico fato il capo altero
offerse, e ’l volse in sé sola raccòrre.
Magnanima menzogna, or quand’è il vero
sí bello che si possa a te preporre?
Riman sospeso, e non sí tosto il fero
tiranno a l’ira, come suol, trascorre.
Poi la richiede: "I’ vuo’ che tu mi scopra
chi diè consiglio, e chi fu insieme a l’opra."
"Non volsi far de la mia gloria altrui
né pur minima parte"; ella gli dice
"sol di me stessa io consapevol fui,
sol consigliera, e sola essecutrice."
"Dunque in te sola" ripigliò colui
"caderà l’ira mia vendicatrice."
Diss’ella: "È giusto: esser a me conviene,
se fui sola a l’onor, sola a le pene."
Qui comincia il tiranno a risdegnarsi;
poi le dimanda: "Ov’hai l’imago ascosa?"
"Non la nascosi," a lui risponde "io l’arsi,
e l’arderla stimai laudabil cosa;
cosí almen non potrà piú violarsi
per man di miscredenti ingiuriosa.
Signore, o chiedi il furto, o ’l ladro chiedi:
quel no ’l vedrai in eterno, e questo il vedi.
Benché né furto è il mio, né ladra i’ sono:
giust’è ritòr ciò ch’a gran torto è tolto."
Or, quest’udendo, in minaccievol suono
freme il tiranno, e ’l fren de l’ira è sciolto.
Non speri piú di ritrovar perdono
cor pudico, alta mente e nobil volto;
e ’ndarno Amor contr’a lo sdegno crudo
di sua vaga bellezza a lei fa scudo.
Presa è la bella donna, e ’ncrudelito
il re la danna entr’un incendio a morte.
Già ’l velo e ’l casto manto a lei rapito,
stringon le molli braccia aspre ritorte.
Ella si tace, e in lei non sbigottito,
ma pur commosso alquanto è il petto forte;
e smarrisce il bel volto in un colore
che non è pallidezza, ma candore.
Divulgossi il gran caso, e quivi tratto
già ’l popol s’era: Olindo anco v’accorse.
Dubbia era la persona e certo il fatto;
venia, che fosse la sua donna in forse.
Come la bella prigionera in atto
non pur di rea, ma di dannata ei scorse,
come i ministri al duro ufficio intenti
vide, precipitoso urtò le genti.
Al re gridò: "Non è, non è già rea
costei del furto, e per follia se ’n vanta.
Non pensò, non ardí, né far potea
donna sola e inesperta opra cotanta.
Come ingannò i custodi? e de la Dea
con qual arti involò l’imagin santa?
Se ’l fece, il narri. Io l’ho, signor, furata."
Ahi! tanto amò la non amante amata.
Soggiunse poscia: "Io là, donde riceve
l’alta vostra meschita e l’aura e ’l die,
di notte ascesi, e trapassai per breve
fòro tentando inaccessibil vie.
A me l’onor, la morte a me si deve:
non usurpi costei le pene mie.
Mie son quelle catene, e per me questa
fiamma s’accende, e ’l rogo a me s’appresta."
Alza Sofronia il viso, e umanamente
con occhi di pietade in lui rimira.
"A che ne vieni, o misero innocente?
qual consiglio o furor ti guida o tira?
Non son io dunque senza te possente
a sostener ciò che d’un uom può l’ira?
Ho petto anch’io, ch’ad una morte crede
di bastar solo, e compagnia non chiede."
Cosí parla a l’amante; e no ’l dispone
sí ch’egli si disdica, e pensier mute.
Oh spettacolo grande, ove a tenzone
sono Amore e magnanima virtute!
ove la morte al vincitor si pone
in premio, e ’l mal del vinto è la salute!
Ma piú s’irrita il re quant’ella ed esso
è piú costante in incolpar se stesso.
Pargli che vilipeso egli ne resti,
e ch’in disprezzo suo sprezzin le pene.
"Credasi" dice "ad ambo; e quella e questi
vinca, e la palma sia qual si conviene."
Indi accenna a i sergenti, i quai son presti
a legar il garzon di lor catene.
Sono ambo stretti al palo stesso; e vòlto
è il tergo al tergo, e ’l volto ascoso al volto.
Composto è lor d’intorno il rogo omai,
e già le fiamme il mantice v’incita,
quand’il fanciullo in dolorosi lai
proruppe, e disse a lei ch’è seco unita:
"Quest’è dunque quel laccio ond’io sperai
teco accoppiarmi in compagnia di vita?
questo è quel foco ch’io credea ch’i cori
ne dovesse infiammar d’eguali ardori?
Altre fiamme, altri nodi Amor promise,
altri ce n’apparecchia iniqua sorte.
Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise,
ma duramente or ne congiunge in morte.
Piacemi almen, poich’in sí strane guise
morir pur déi, del rogo esser consorte,
se del letto non fui; duolmi il tuo fato,
il mio non già, poich’io ti moro a lato.
Ed oh mia sorte aventurosa a pieno!
oh fortunati miei dolci martíri!
s’impetrarò che, giunto seno a seno,
l’anima mia ne la tua bocca io spiri;
e venendo tu meco a un tempo meno,
in me fuor mandi gli ultimi sospiri."
Cosí dice piangendo. Ella il ripiglia
soavemente, e ’n tai detti il consiglia:
"Amico, altri pensieri, altri lamenti,
per piú alta cagione il tempo chiede.
Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti
qual Dio prometta a i buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
e lieto aspira a la superna sede.
Mira ’l ciel com’è bello, e mira il sole
ch’a sé par che n’inviti e ne console."
Qui il vulgo de’ pagani il pianto estolle:
piange il fedel, ma in voci assai piú basse.
Un non so che d’inusitato e molle
par che nel duro petto al re trapasse.
Ei presentillo, e si sdegnò; né volle
piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse.
Tu sola il duol comun non accompagni,
Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni.
Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(ché tal parea) d’alta sembianza e degna;
e mostra, d’arme e d’abito straniero,
che di lontan peregrinando vegna.

  I versi successivi non sono all’altezza dei precedenti per cui preferisco ometterli. Il guerriero che giunge è Clorinda la quale, informatasi di chi fossero i due condannati, rimane commossa dalla loro storia e interviene presso Aladino chiedendogli di risparmiarli. Il re, conoscendo il valore di Clorinda e volendole rendere il debito onore, acconsente. Sofronia e Olindo vengono dunque liberati e la giovane accetta di sposare Olindo e i due lasciano la città insieme.