domenica 4 dicembre 2011

Guido Cavalcanti


Voi, che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia
che sospirando la distrugge Amore.
E’ ven tagliando di sì gran valore
che’ deboletti spiriti van via,
riman figura sol' en segnoria
e voce alquanta che parla dolore.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr'occhi gentil presta si mosse;
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo, al primo tratto,
                                               che l’anima tremando si riscosse,
                                               veggendo morto ’l cor nel lato manco.

voi che attraverso gli occhi mi avete trapassato il cuore/ e avete risvegliato la mente (la fantasia) che dormiva / guardate la mia vita angosciata/ che Amore distrugge tra i sospiri/ egli (Amore) mi ferisce con così grande forza/ che i miei deboli spiriti vanno via/ e in signoria (di Amore) rimane solo la figura (il mio aspetto esteriore) e quel pò di voce che lamenta il mio dolore/ Questa forza di amore che mi ha distrutto/ è partita veloce dai vostri occhi/ e mi ha gettato una freccia nel fianco/ Il colpo giunse subito dritto al cuore tanto/ che la mia mente tremando si riscosse/
vedendo il cuore colpito a morte nel lato sinistro  

Arthur Schopenhauer





"Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio."

Giacomo Leopardi - Operette Morali


"Dall'odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non posso anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto inabile e impenetrabile all'odio. Il che non è piccola parte della mia tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare: perché sempre penso che comunemente, chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far comodo o piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per far male ad altri (che questo non è propriamente il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per far bene a sé; il qual desiderio è naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene. Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie continuamente l'animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l'ira e l'odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è conveniente alla tenuità della vita."
                                                                   dal "Dialogo di Timandro e Eleandro"

Francesco Petrarca - Rime


Quanto più m’avvicino al giorno estremo,
Che l’umana miseria suol far breve,
Più veggio ’l tempo andar veloce e leve,
E ’l mio di lui sperar fallace e scemo.
I’ dico a’ miei pensier: non molto andremo
D’amor parlando omai; chè ’l duro e greve
Terreno incarco, come fresca neve,
Si va struggendo; onde noi pace avremo:
Perchè con lui cadrà quella speranza
Che ne fe vaneggiar sì lungamente,
 E ’l riso e ’l pianto e la paura e l’ira.
                                        Sì vedrem chiaro poi come sovente
                                        Per le cose dubbiose altri s’avanza;
                                        E come spesso indarno si sospira.

Quanto più mi avvicino al giorno della morte/ che è solita rendere breve la miseria umana/ tanto più vedo il tempo scorrere lieve e veloce/ e la speranza riposta in lui mancare e rivelarsi vana (cioè la speranza di riuscire nel tempo a soddisfare il suo bisogno amoroso)/ e dico ai miei pensieri che non continueremo a lungo a parlare di amore/ perché questa dura e pesante esistenza terrena si va consumando come neve fresca (altri intendono per "terreno incarco" il corpo fisico)/ alla fine della quella raggiungeremo la pace / perché con la fine della vita finirà anche quella speranza che mi ha fatto vaneggiare così a lungo/ e (finirà) il riso, il pianto, la paura e l'ira (in altri termini ogni emozione) / e così ci renderemo conto di come spesso ci si affatichi per cose incerte/ e come spesso si sospiri inutilmente (cioè senza poter appagare i propri desideri)

sabato 3 dicembre 2011

Jonathan Swift - I viaggi di Gulliver



Le loro idee riguardi ai doveri dei genitori e dei figli sono l'opposto delle nostre. Dato che l'unione dei sessi si fonda sulla grande legge della natura per propagare e continuare la specie, i lillipuziani uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli altri animali, seguendo l'istinto della concupiscenza; l'affetto per i figli deriva quindi dallo stesso principio naturale. Per questo non sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al mondo; la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé, né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt'altre faccende affaccendati durante i loro incontri amorosi. Per questi e simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli.

Ovidio - Metamorfosi


Subito si reca alla dimora di Invidia, funerea di peste
e squallore. È una casa nascosta in fondo a una valle,
una casa priva di sole, senza un alito di vento,
tetra, tutta intorpidita dal gelo, dove sempre
manca il fuoco e sempre dilagano le nebbie.
Quando vi giunge, la temibile vergine della guerra
si ferma sulla soglia, non essendole permesso
di varcarla, e bussa alla porta con la punta della lancia.
Ai colpi si spalancano i battenti: all'interno intravede Invidia,
che mangia carne di vipera per alimentare
i suoi vizi, e a quella vista distoglie gli occhi. L'altra invece
si alza pigramente da terra, lasciandosi alle spalle brandelli
di serpenti mezzo rosicchiati, e avanza con passo incerto:
quando scorge la dea lucente d'armi in tutto il suo fulgore,
manda un gemito, contraendo il volto nel conato dei sospiri.
Il pallore le segna il viso, la magrezza tutto il corpo;
mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e guasti,
il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno.
Senza un'ombra di sorriso, se non mosso dalla sventura altrui,
non gode del sonno, agitata com'è dall'assillo dei suoi crucci;
con astio apprende i successi degli uomini e quando li apprende
si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso:
questo il suo tormento